All’ombra della Basilica Palladiana, nel cuore di Vicenza, è custodita una piccola gemma preziosa:
il Museo del Gioiello. Aperto nel 2014, con un allestimento interno progettato da Patricia Urquiola,
il museo espone gli artefatti suddivisi in diverse sale che non rispettano un ordine cronologico,
bensì un tema. La collezione semi-permanente, cambiata ogni due anni, è dunque suddivisa su
nove stanze che rappresentano ognuna un tema diverso: il simbolo, la magia, la bellezza, la
funzione, la moda, il design, l’arte, le icone ed infine il futuro. Ognuna ha un diverso curatore e
raccoglie pezzi illustri provenienti dai laboratori di nomi quali Van Cleef e Arpels, Maison Martin
Margiela, Lalique, Bruno Munari o Alexander Calder. Pezzi più o meno recenti messi in dialogo con altri provenienti da epoche molto più lontane come fibule dall’età del ferro, od ornamenti del XVII secolo, trovano una loro armonia e creano spunti di riflessione e confronto.
Oltre alle sale permanenti al piano terra è presente un’esposizione temporanea che si rinnova più
volte l’anno, e che fino al 19 settembre ospiterà un tributo ai gioielli realizzati da Giò Pomodoro. Nato a Pesaro nel 1930 e fratello minore di Arnaldo, è famoso a livello internazionale soprattutto per essere stato uno straordinario scultore; celebre è infatti la sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 1956 in cui debuttò con gli argenti fusi su osso di seppia, ispirati dal poeta americano Ezra Pound.
Questa tecnica di utilizzo degli ossi di seppia come negativo per la produzione di artefatti proviene
proprio dal mondo dell’oreficeria, con cui era entrato i contatto molto presto durante la sua
formazione nella bottega di un orafo di Pesaro, città in cui visse con la famiglia fino alla morte del
padre negli anni ’50. Oltre a Venezia e sul territorio nazionale a Milano, Torino, Ravenna, Padova e Firenze -solo per citarne alcune- la presenza delle sue opere si estende anche all’estero,
confermandone la sua importanza internazionale.
I gioielli esposti rispecchiano il suo modo di vedere gli spazi e i materiali, partendo dalle prime
creazioni molto più fluide e tondeggianti degli anni ’50, ottenute con tecniche tradizionali come la
fusione in osso di seppia, per poi passare alla fine degli anni ‘60 e alla collaborazione con GEM, di
Giancarlo Montebello, con i primi studi sulla riproducibilità e serialità. Le forme diventano più
geometriche, definite e rigorose, ricorrendo a volte all’uso di piccoli giochi meccanici che
permettono al gioiello di diventare quasi interattivo, fino ad arrivare agli anni ’80 in cui l’uso di
smalti e colori accesi si rivela perfettamente in linea con il gusto di quella decade.
Un fattore importante da considerare, guardando i meravigliosi pezzi esposti, è la formazione di Giò Pomodoro in ambito orafo. Questo fa si che tutte le sue creazioni si contraddistinguano per
l’indossabilità, che non siano cioè una sorta di scultura in miniatura solo da ammirare ed esporre,
bensì vadano ad adornare perfettamente il corpo di chi le veste rispettando le caratteristiche di
portabilità dei gioielli tradizionali. Anche i materiali utilizzati si accostano a quelli della gioielleria, si osserva infatti la grande presenza dell’oro giallo oltre che quella di pietre quali diamanti, smeraldi e rubini. Ciò che si discosta dalla tradizionalità invece sono le forme, molto più assimilabili ad oggetti di design piuttosto che gioielli. Il risultato finale è una collezione di pezzi che affascinano e testimoniano quanto la gioielleria sia un territorio di esplorazione da parte di mondi
apparentemente esterni, che riescono in realtà ad inserirsi e produrre cose straordinare.
By Laura Zanovello
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